“Oceano – Belin, un altro tributo a De André” – Fabio Mancini racconta il suo omaggio
Lo spettacolo stesso è un po’ un paradosso, è un contro-tributo. A un certo punto della serata sarà Fabrizio stesso – lui come lo vedo io – a parlare e a lamentarsi di tutti ‘sti omaggi postumi, fra un sorso di vino e l’altro. Quindi, mi dirai tu, se sei contro i tributi che senso ha farne uno? Boh. Non ho nessun intento morale o educativo, per me suonare De André è una specie di compulsione, una dipendenza.
Sarà davvero un altro tributo a De André? Ne dubito, ma lo abbiamo chiesto direttamente a Fabio Mancini, personaggio poliedrico, musicista di grande talento e autore dall’anima busker, già avvezzo ai microfoni di Radio Kaos Italy.
“Oceano – Belin, un altro tributo a De André”, recita il titolo. In cosa si differenzia il tuo omaggio a questo immenso cantautore?
Spero nell’essere personale. Se è bello è qualcosa che non posso stabilire io, ma di sicuro so quanto c’è di mio nei monologhi che ho scritto come ponte fra i pezzi, per far immedesimare lo spettatore nei personaggi deandreiani chiamati in causa e dargli una voce nuova, per come li ho visti e sentiti io. Anche la scelta dei pezzi è, ovviamente, calibrata sulle mie preferenze affettive, con molte sorprese. Nello spettacolo non ci saranno Bocca di rosa, né La guerra di Piero, né Via del campo, né Il pescatore, non perché non le adori, ma ci sono decine di gruppi in giro che le suonano. L’idea è anche dare un po’ di spazio a pezzi che non necessariamente ci verrebbero in mente per primi, posto che credo ne abbia sbagliate veramente pochissime, è quasi tutto a un livello irraggiungibile e costante. E poi, in questa occasione e spero anche in futuro, c’è il buon Tony che si è immedesimato davvero molto bene nei miei deliri teatrali (ma non ne dubitavo), e Domenico che in qualche modo fa me, visto che in genere gli altri mi chiamano come violinista. Ma stavolta si è beccato lui la patata bollente, io me ne sto comodo con la chitarra e lui colora i pezzi e li rende speciali. C’è da dire che non potevo scegliere meglio i miei fedeli pards, come direbbe Guccini.
Cosa ti lega a De André?
La sua voce è sempre stata nell’aria, da quando ero piccolo. Mio padre lo ascoltava parecchio, mi ha passato tante cose col solo fatto di amarle, senza mai obbligarmi ad ascoltarle o leggerle. Le sue canzoni sono state fra le primissime cose che ho voluto sentire spontaneamente, intorno ai dodici o tredici anni. Lui è sempre stato lì, e nel tempo ho sentito il bisogno di ritornare, ogni tanto, al suo mondo, alla sua visione, ai suoi luoghi, e immergermici completamente. È uno di quegli elementi che si possono collegare praticamente a tutto, come se fosse un filtro della realtà. Io ho una mia cerchia stretta di presenze che in qualche modo mi guidano, all’interno dell’universo molto più ampio di tutto quello che ho ascoltato, letto e visto, e se li alloggiassi tutti in un condominio penso che a lui dovrei dare un piano intero, completo di vasca idromassaggio e balcone vista mare.
Tu sei anche un musicista con una produzione musicale inedita. Quanto ha influito De André nella tua scrittura?
Anche volendo, è molto difficile ignorare De André, e io non ho mai voluto. Diciamo che, quando sono passato dal violino alla chitarra e alla scrittura è stato un po’ un’ossessione, e avendo una voce abbastanza bassa la tentazione di imitarlo è stata bella forte, ma penso di essere riuscito a trovare un equilibrio. Lui (citando Guzzanti in Boris) c’è, perché c’è, ma ormai ci sono anche io, e anche quando lo canto non credo di risultare un tentativo (inutile) di copia carbone. Nei miei vecchi pezzi in italiano la sua presenza sullo sfondo si sente eccome, in un paio lo cito anche, più o meno esplicitamente. Qualche anno fa, per una serie di motivi di cui forse abbiamo già parlato, ho deciso di passare all’inglese, e lì probabilmente la matrice deandreiana è molto diluita, in favore di un mischione di altre cose (Dylan, Van Morrison, Glen Hansard, Tom Waits, i Waterboys e così via).
Che parole useresti per invogliare un ragazzo giovane ad avvicinarsi alla musica di Faber?
Oltre al fatto che non ho la qualificazione per farlo e che non sono ancora pronto a non essere più io il ragazzo giovane, credo che semplicemente non serva. Faber è autoinvogliante, e lui stesso sarebbe un po’ inorridito di vedere che oggi c’è gente che lo vende come un obbligo morale. Le cose belle parlano per sé. L’unica cosa che posso augurare (pure, se non soprattutto, a qualcuno più vecchiotto) è di scoprirlo davvero, piuttosto che celebrarlo e fargli monumenti.
Lo spettacolo stesso è un po’ un paradosso, è un contro-tributo. A un certo punto della serata sarà Fabrizio stesso – lui come lo vedo io – a parlare e a lamentarsi di tutti ‘sti omaggi postumi, fra un sorso di vino e l’altro. Quindi, mi dirai tu, se sei contro i tributi che senso ha farne uno? Boh. Non ho nessun intento morale o educativo, per me suonare De André è una specie di compulsione, una dipendenza. Chi la cocaina, chi lo shopping online, chi qualche tipo di fetish, chi le sette religiose, io c’ho questa. Poteva andare peggio.
Quali sono i tuoi progetti in cantiere dopo lo spettacolo di sabato?
In generale, un bel po’. Anche se non l’ho ancora scritto da nessuna parte, ho un altro album in inglese già pronto, che sarà un po’ il seguito del primo e uscirà penso in primavera, e ho sempre parecchia roba che mi frulla in testa. Sto pure recuperando materiale di qualche anno fa, in italiano, che penso sia più particolare e meno legato al classico immaginario “da cantautore”. Per lo spettacolo, spero di rifarlo in altri bei posti e spero che i miei compagni di viaggio si siano divertiti tanto da volermi accompagnare di nuovo, anche occasionalmente visto che tutti e tre abbiamo parecchie cose da fare e novità per le mani. Fra l’altro durante i vari lockdown ho scritto una specie di versione 2.0 di Oceano, che all’inizio avevo pensato come romanzo, ma poi per pigrizia ho infilato nel contenitore-spettacolo. Ma per quella mi servirebbe una compagnia teatrale vera e propria. Vedremo. Nel frattempo venite a questa, belin! Ah, fra parentesi, se aveste origini liguri, a un certo punto avete l’occasione di lanciare i pomodori ai miei tentativi di stupro dell’accento genovese. Ti offenderesti se ti chiamassi un tentativo? Tocca ricordarselo sempre, che lo siamo.
Olivia Cinnamon Balzar
Info utili:
Sala Paolo Poli,
via Capitan Consalvo, 2
Ostia, Roma.
Ingresso: 10 euro + 2€ di tessera (valida per tutta la stagione)
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Dir. Artistico Radio Kaos Italy