Fontaines D.C all’Auditorium
Mercoledì scorso, 25 giugno, i Fontaines D.C. hanno fatto ingresso nella Cavea dell’Auditorium capitolino, ingresso tanto atteso data la precoce scomparsa dei biglietti, il pienone era registrato da mesi. Non una sorpresa, il gruppo dublinese rimarrà ancora per poco in spazi firmati tremila posti, è infatti una delle migliori band rock del momento insieme a Idles, Viagra Boys, Shame; i pochi gruppi che, per quanto mi riguarda, salvano la grande baracca del rock di questi ultimi anni.
Il concerto ha un incipit teatrale e lento: un basso salmodiante, che ricorda il live dei Pink Floyd a Pompei nel 1972, accompagna l’entrata dei componenti e sfocia nella prima canzone in scaletta, “Romance”, brano che, insieme all’altro singolo “Starbuster”, preannuncia l’uscita del nuovo album ad agosto. Dopodiché l’esibizione, nella sua ora e mezza, valorizza l’evoluzione musicale vissuta dalla banda nei suoi tre album: il rabbioso e tagliente “Dogrel”, l’inebriante “A Hero’s Death”, l’irlandese “Skinty Fia”. Un concerto adrenalinico, impattante è la loro sonorità che si schianta in faccia al pubblico.
I Fontaines D.C. che inizialmente si presentano freddamente nordici, si rivelano sul palco delle fiamme punk, psichedeliche e catalizzanti. Il cantante aizza la folla sottostante, si muove da un angolo all’altro del palco, si sbraccia con carisma e presenza. Il resto dei componenti si perde nota dopo nota, t’accompagna nel loro mondo.
La loro verve ed energia assomiglia alla tigna di quel gruppo giovane che tramite la performance sul palco vuole guadagnarsi un ruolo nel grande film della musica. Eppure, l’età della loro scrittura è di quattro album, perciò sono relativamente giovani. Il gruppo nasce nel 2017, ma pubblicheranno la loro prima opera solo due anni più tardi, la quale gli frutterà un enorme successo di critica e pubblico. Nel giro dei tre anni successivi estraggono dal cilindro altri due album. Ora il quarto.
Un crescendo esponenziale di qualità, una piena giovinezza mai perduta all’interno di una maturità artistica e gestionale.
I Fontaines, gruppo magnetico per la loro bravura nel saper alternare tra lo schiaffo sonoro ed il dolce dilatato, per rappresentare un mondo, il loro, quello irlandese, tramite poesia e sensibilità nella ricerca di loro stessi. Ricordo che il gruppo nasce collettivo poetico in seguito divenuto gruppo musicale.
I testi del cantante Grian Chatten sono generosi.
Mettono in scena la piccola realtà dell’Irlanda, quella piccola realtà tenuta a distanza dal mondiale girovagare della band. Una realtà ricordata con nostalgia, con amore, e con un’affermazione a tratti seccata dalla visione stereotipata, soprattutto inglese, ancora legata a ricordi storici e superficiali (“In ár gCroíthe go deo”, titolo in gaelico, racconta di questo).
I testi mettono la persona che, come se fosse in una spiaggia a lei cara ma desolata, è pronta a farsi accogliere dalle sensazioni (“I Dont’t Belong”). Mettono in scena il grande vuoto assetato di questa umanità (“Televised Mind”, “Hurricane Laughter”). Mettono in scena l’esperienza del panico, il panico di perdersi senza rendersene conto, di macchiare quella purezza agli occhi di nessuno (“Starbuster”).
Testi distanti da una politicizzazione e da una vena sociale, tuttavia non perdono la loro radice punk. Testi strappati, ossessivamente ripetitivi, una concentrazione personalissima che alimenta un sentimento di rivalsa nei confronti di un mondo poco romantico.
Sotto la grande ala del post-punk i Fontaines D.C. avanzano a fiotti e non si fermano più, con loro altri gruppi di spessore, alcuni sopracitati all’inizio. Si prospetta pertanto, mi auguro, un avvenire migliore per la scena rock contemporanea, fino ad ora condita con sale sciapo. Non tutto è ancora perduto in mezzo a questi sindaci con tracolle fender.
Dir. Artistico Radio Kaos Italy