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To be or not to be, ma non è Shakespeare

Si possono mescolare insieme commedia, film di spionaggio, dramma e ottenere un capolavoro? Si ma solo se ti chiami Ernst Lubitsch.

La leggenda vuole che Billy Wilder avesse appeso sulla porta del proprio ufficio un cartello su cui campeggiava la scritta “Cosa avrebbe fatto Lubitsch?”. Basta questo per far capire l’influenza che il regista berlinese ha esercitato nella storia del cinema e quanto abbia codificato uno stile, un marchio di fabbrica (il celebre “Lubitsch touch”) in grado di segnare la commedia per sempre.

Ci sono tantissime pellicole, da “Scrivimi fermo posta” a “Ninotchka” che hanno segnato la storia del cinema, ma se dovessi scegliere la pietra più preziosa fra quelle che compongono la corona dei capolavori di Lubitsch sceglierei un suo film del 1942: “To be or not to be”; titolo ben più efficace dell’ inspiegabile “vogliamo vivere” della versione italiana. Il tutto comincia proprio con una rappresentazione di Shakespeare. 

Varsavia, 1942. Josep Tura, a capo di una scalcagnata compagnia di attori semi professionisti, ha un sogno: portare il monologo di Amleto su un grande palco. Ogni volta che però lo mette in scena, un ufficiale dal pubblico, annoiato, si alza e si reca nel camerino a fare delle avances a sua moglie Maria. Proprio attraverso questo ufficiale, per una serie fortuita di eventi, i nostri attori diventano parte della resistenza contro i nazisti. Diventano a tutti gli effetti delle spie, sfruttando il loro modesto talento nella recitazione e nei travestimenti e generando equivoci e gag a non finire. Alla fine del film Josep e la sua compagnia vengono decorati per il loro sforzo e gli viene concesso di portare in scena Amleto, ma qui per ironia della sorte il cerchio si chiude come l’inizio del film: uno spettatore, tediato, si alza e se ne va subito via.

Va detto innanzitutto che il film è del 1942, quindi il nazismo è ancora in campo, sono davvero pochi gli esempi di pellicole che trattano questi argomenti, la più celebre è sicuramente “Il grande dittatore” di Chaplin. Inoltre è l’ultima apparizione di Carole Lombard, che morirà quell’anno in un incidente aereo, ponendo fine ad una carriera fino a quel momento luminosissima. Il film è geniale per diverse ragioni: la commistione fra generi con l’inserimento dell’elemento comico in un tema così serio precede di decenni l’idea di Benigni ne “La vita è bella”, peraltro realizzandola in maniera molto più riuscita e profonda.

Lubitsch sa di star gestendo argomenti delicati ma lo fa con un equilibrio e una conoscenza dei tempi cinematografici impeccabile. Allo stesso tempo fa anche meglio di Tarantino, che riscrive la storia in “Bastardi senza gloria” per farla stare nel suo racconto fumettistico e pulp, stravolgendola. Il regista tedesco riesce a far quadrare tutti i pezzi del puzzle, mettendo in scena l’avanzata dell’orrore nella storia attraverso un mènage di coppia: i nazisti sono dipinti come degli idioti, incapaci di riconoscere lo stesso Hitler o distinguere una barba vera da una finta, degli automi crivellati dall’umorismo del regista ancor più efficacemente rispetto che a un dramma. Il ritmo è perfetto, non sembra di stare vedendo un film degli anni quaranta ma un’opera che deve uscire domani per freschezza dei dialoghi, capacità degli interpreti, perfezione delle gag. Lubitsch non spreca un fotogramma e sotto traccia inserisce argomenti molto seri: il confine labile tra realtà e finzione, l’arte come metafora della vita, l’importanza dell’unione nei momenti di difficoltà. Di fatto non si esce mai dal teatro, Varsavia è solo lo sfondo di una grande rappresentazione.

Come scrive Jean Eustache la chiave del film è lo scambio fra l’attore e il professore: il vero professore muore dietro al sipario, sulla scena teatrale, quindi in un luogo rubato allo spettacolo (e alla menzogna), mentre l’attore (personaggio irreale per essenza) prendendone il testimone in vita è ancor più vero di colui che interpreta.

Articolo a cura di Simone Giunta