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Filippo de Pisis, il pittore poeta

Della centralità dell’immagine nella poesia ne è stato discorso molto da sempre. E, nonostante le sperimentazioni che ha raggiunto la poesia contemporanea, molti poeti ancora insistono sull’importanza – cito a braccio da un post di Andrea Temporelli – “di allestire una scena, piuttosto che mettere in versi un concetto”. Non è sorprendente, quindi, pensare che molti autori si siano cimentati sia nei versi, che nell’arte che nell’immagine vede la sua base, ovvero la pittura. Fra queste figure leonardesche, come Emilio Villa, Corrado Costa, Patrizia Vicinelli, e così via, svetta Filippo de Pisis, sicuramente conosciuto più per i suoi dipinti, che per la sua produzione letteraria. Eppure, de Pisis si è definito, in una lettera, nato poeta e non pittore.

Pubblicate inizialmente da Vallecchi nel 1942, e poi in un’edizione arricchita nel 1953, le poesie di de Pisis sembrano affacciarsi su un altro lato del novecento, lontano dall’ermetismo, e più vicino invece ai predecessori, Pascoli e Leopardi principalmente (che interrogherà nei Canti della Croara).

Ecco una poesia, estratta dalla seconda edizione delle poesie (Vallecchi, 1953:

A Cocò

Se mi sente piangere nel chiaro mattino

Cocò dal balcone fiorito

ecco si impazienta, mi fa il verso

e, cara bestiola, finisce per farmi sorridere

come il buffone del tiranno

come l’arlecchino della farsa

Oieop oieop oieop.